Prima domenica di Avvento 2018

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail

 

Lascia volare il tuo cuore!

Non si appesantiscano i vostri cuori (Lc 21,34)

Forse è capitato anche a te di sentire il ‘cuore pesante’, schiacciato dalla tristezza, dal dolore, dalla delusione oppure sballottato dalle preoccupazioni, dalla stanchezza, dalla mancanza di relazioni profonde, portatrici di senso e di futuro. Quando il cuore pesa, fa male! E se il cuore soffre, è spinto a fuggire dalla realtà, dal quotidiano, dalle relazioni concrete, dalle difficoltà, per trovare strade e spazi «alternativi!». Eppure il cuore è fatto per volare: per sognare, per amare, per creare nuovi spazi di vita e aprire nuove strade nei deserti del mondo.

Allora, cosa aspetti? È giunta l’ora di salvare il tuo cuore, di portarlo sui sentieri della Verità! Questo è l’augurio più sincero che ti giunge dalla prima Domenica di Avvento: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano» (Lc 21,33-34). C’è un misterioso legame tra la parola di Dio e il nostro cuore! Nel meraviglioso e sorprendente mondo della Bibbia, il termine ebraico lev, cuore, è davvero una parola molto piccola, ma secondo i maestri d’Israele è destinata a grandi cose. Infatti, le sue due consonanti corrispondono alla prima e all’ultima lettera del Pentateuco o meglio della Torah (che significa guida, insegnamento, luce); quasi a voler dire che il cuore è fatto per le Sacre Scritture e le Sacre Scritture per il cuore.

Ecco per te il segreto dei pellegrini di Dio: il tuo cuore può contenere la Parola, fonte di vera gioia e di speranza per tutti, e la Parola rivela il mistero della tua identità, della tua vocazione, perché «di te è scritto sul rotolo del libro» (cfr. Sal 40,8). In questa reciprocità dinamica si accendono le scintille di senso: «Non ardeva il nostro cuore dentro di noi, mentre egli ci parlava per la via e ci apriva le Scritture?» (Lc 24,32).

Cerca la gioia nel Signore:
esaudirà i desideri del tuo cuore.
Affida al Signore la tua via,
confida in lui ed egli agirà.
(Sal 37,4-5)

Francesca Pratillo, fsp

 


Presentazione del logo dell’Anno vocazionale

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail

 

Roma, 26 novembre 2018
Festa del Beato Giacomo Alberione

Carissimi Sorelle e Fratelli della Famiglia Paolina,

come consiglieri generali della formazione delle nostre Congregazioni, vi salutiamo e nello stesso tempo chiediamo insieme a voi al Divin Maestro “le abbondanti ricchezze della sua grazia” per sostenere la fedeltà al carisma ricevuto.

Oggi celebriamo il 47° anniversario della morte del nostro Fondatore, il Beato Giacomo Alberione: una data molto significativa per la Famiglia Paolina. Cogliamo questa occasione per presentarvi il Logo dell’Anno Vocazionale della Famiglia Paolina che i nostri Superiori Generali hanno scelto tra una selezione di loghi presentati. Ringraziamo i fratelli e le sorelle che hanno risposto al nostro invito ad esprimere la loro creatività proponendo dei bozzetti.

Il Logo scelto, di don Ulysses Navarro ssp, ben esprime il tema dell’Anno Vocazionale della Famiglia Paolina: Ravviva il dono di Dio (2Tm 1,6). Offriamo la spiegazione del profondo significato del Logo, che lo stesso autore ha condiviso:

Il Logo evoca una relazione dinamica tra gli elementi che lo compongono. Sebbene ogni simbolo sia distinto l’uno dall’altro, tutti sono resi in uno stile uniforme per significare che ognuno è profondamente connesso con gli altri. Esaminiamo gli elementi uno per uno.

1. Il simbolo dominante è rappresentato dalle mani aperte. Vivaci sia nella forma che nei colori, raffigurano sia il donatore che il ricevente. La vocazione è un dono che riceviamo da Dio. Quando abbiamo riconosciuto la chiamata nella nostra vita, abbiamo aperto le nostre mani per riceverla. E mentre maturiamo nella nostra risposta personale, riapriamo le nostre mani per aiutare gli altri a scoprire e rispondere alla loro vocazione.

2. Al centro del logo si trova il seme che ha iniziato a crescere: vulnerabile ma bello. Rappresenta la vocazione che richiede attenzione e guida. Il seme, da solo, con le sue sole forze, non può sopravvivere. Per questo le due mani aperte sono pronte a sostenerlo.

3. Infine, l’acqua e la terra sono visibili nella parte inferiore del Logo. Rappresentano gli elementi necessari affinché il seme (la vocazione) cresca. Un’autentica vocazione è profondamente radicata e nutrita dalla preghiera e dal buon esempio di altri. Non può esistere da sola e solo per se stessa, ma ha bisogno sia di fondamento che di ispirazione, e questi sono rappresentati dalla terra e dall’acqua.

In Cristo Maestro e in san Paolo:

I consiglieri generali della formazione

  1. José Salud Paredes ssp
  2. Celso Godilano ssp
  3. Karen Marie Anderson e sr. Clarice Wisniewski fsp
  4. M. Anetta Szczykutowicz pddm
  5. Marisa Loser sjbp
  6. Tosca Ferrante e sr. Teresita Cabri ap

INDIA
Giornata delle comunicazioni

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail

Le Figlie di San Paolo di Mumbai hanno organizzato un convegno, in vista della Giornata delle comunicazioni sociali in India, dal tema La verità vi renderà liberi: notizie false e vero giornalismo per la pace. Tre esperti hanno approfondito i vari argomenti e risposto alle domande di chiarificazione su eventuali dubbi. All’incontro erano presenti il Vescovo incaricato della comunicazione nella diocesi, sacerdoti, religiosi e rappresentanti laici delle varie parrocchie di Mumbai. Tutti hanno espresso la loro riconoscenza e soddisfazione per aver partecipare a un evento di alta qualità e sensibilità pastorale.

Affascinata dalla Libreria Paolina

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail
Sono diventata Figlia di San Paolo perché mi piaceva lavorare in libreria. Ero convinta che attraverso la libreria si potesse fare del bene.
Inocencia Tormon, fspCasa generalizia

Una favola racconta che quando Dio ha formato con la terracotta la grande Cina, l’India e tutte le altre grandi isole che ci sono nel mondo, si è reso conto che sulle sue mani c’erano ancora alcune briciole di terracotta. Scuotendo le mani, queste briciole sono cadute sull’Oceano Pacifico formando le Isole Filippine. 7107 isole, con circa 100 milioni di abitanti!

In una di queste isole, quella di Iloilo, sono nata io, sessantaquattro anni fa, quarta figlia con quattro fratelli e tre sorelle.

La mia famiglia viveva in campagna. Mio papà era un contadino, la mamma rimaneva a casa e quando poteva lo aiutava a coltivare la terra. Entrambi erano ricchi di fede e di valori cristiani. Un sogno ben custodito da loro era far studiare tutti i figli, almeno fino a completare un corso accademico. E hanno avuto la gioia di raggiungere questa meta.

Dopo aver completato l’università, ho insegnato presso una scuola delle suore benedettine, nella città di Bacolod. Mi piaceva insegnare. Andando a scuola dovevo passare davanti a una Libreria Paolina. A me veniva tanta curiosità. Mi domandavo: Chi sono queste suore? Cosa fanno nella libreria? Perché fanno questo lavoro?

Poco tempo dopo ho cominciato a fermarmi, per guardare i libri e comprare piccole cose da regalare ai miei studenti. Quando avevo un po’ di tempo libero, andavo dalle suore e le aiutavo a spolverare i libri. A me piaceva stare con loro, guardarle compiere il loro apostolato, fare delle domande. Spolverando i libri e le scansie, mi sentivo una di loro. Infatti, quando dovevo comprare qualche piccola cosa per la scuola, sceglievo i prodotti che erano un po’ sporchi o sciupati per aiutare le sorelle a “coniugare meglio l’apostolato e l’economia”… Ho capito dopo, in congregazione, dove mi trovo da quarantuno anni, come sia importante questo impegno nella vita di ogni Figlia di San Paolo. È così importante il rapporto apostolato- economia che in questi ultimi due anni (2011-2012) sono stati realizzati quattro incontri continentali per aiutare le sorelle a capire meglio questo concetto e tradurlo in pratica.

Ricordo che la scuola dove ho studiato nella mia città di Iloilo era molto vicina a un’altra Libreria Paolina. Andavo sempre lì dove sr Melania Ravarotto – una delle pioniere della fondazione – mi accoglieva con un bel sorriso. Ogni tanto mi chiedeva se volessi diventare suora. Naturalmente quando sono entrata in congregazione, nel 1971, è stata proprio lei ad accogliermi mentre scendevo dalla nave e a presentarmi a sr Atanasia Seganfreddo (attualmente missionaria a Nairobi/Kenya), allora formatrice delle aspiranti.

(Una parentesi: sr Melania è morta nel 2004, quando il Governo generale stava concludendo la visita fraterna nelle Filippine. È stato un grande privilegio per noi essere presenti nel giorno della sua partenza per la Casa del Padre, dove ricorderà sempre la sua amata terra di missione. Sr Melania è l’unica italiana, tra le pioniere, morta e sepolta nelle Filippine. Lei non voleva venire in Italia neanche per le vacanze, temendo di non poter più tornare nelle Filippine. Il Signore ha esaudito il suo desiderio.)

Ritornando al mio iter vocazionale, mi torna alla mente l’espressione evangelica: «Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?» (Lc 9,25). Questo brano mi ha dato tanta luce e forza per la mia scelta di far parte delle Figlie di San Paolo contro la volontà dei miei genitori, di quasi tutta la mia famiglia e anche della direttrice della scuola dove insegnavo.

La mia mamma, piangendo, diceva: «Pensavo che saresti stata tu a prenderti cura di me nella vecchiaia…». La direttrice cercava di trattenermi appellandosi al mio senso di responsabilità: «Se vuoi veramente andare, devi prima trovare qualcuna che insegni al tuo posto…».

Ma c’era in me una forza che mi attirava a compiere quel passo che avrebbe cambiato la mia vita e a cui non potevo resistere. La motivazione non era del tutto chiara in me, ma avevo il desiderio di abbracciare una forma di vita dove si dava tutto per fare del bene. Alla fine mia madre disse: «Lasciamola andare, entro tre mesi tornerà a casa».

I primi tempi in comunità sono stati duri, non per il lavoro né per le prove, ma per la lontananza dalla famiglia. Eravamo 27 aspiranti. Ricordo che la legatoria era piena di tutte noi. A me piaceva molto lavorare in legatoria. Ogni tanto, quando c’erano delle urgenze, andavamo anche dopo cena. Eravamo entusiaste perché sapevamo che ogni pagina del libro che stavamo confezionando avrebbe fatto del bene alle anime. Questa è la motivazione che le nostre maestre ci ripetevano per spronarci a compiere l’apostolato con sante intenzioni.

Lungo gli anni altri brani della Parola di Dio mi hanno aiutato a rafforzare la convinzione che non sono stata io a scegliere questo genere di vita, ma è stato Dio a scegliere me. La voce del Signore risuona ancora dentro di me: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv 15,16). Faccio tesoro di queste parole perché mi fanno sentire forte, come fondata sulla roccia del progetto di Dio su di me. Mi piace ricordare, e anche dire alle giovani in formazione iniziale, questo motto: «Se si conosce il perché della vita, si sopporta qualsiasi cosa si incontri per la via».

La mia mamma, quando sono partita, aspettava il mio ritorno a casa entro tre mesi. Adesso lei è con il Signore (è morta nel 2001), e sono sicura che prega sempre per me, perché i tre mesi di vita paolina non finiscano mai. Inoltre, ho avuto la grazia di stare con lei negli ultimi giorni della sua vita terrena. Era contenta della mia presenza, che aveva tanto desiderato.

Sono diventata Figlia di San Paolo perché mi piaceva lavorare in libreria. Ero convinta che attraverso la libreria si potesse fare del bene. Ma non ho mai avuto l’incarico di librerista a tempo pieno. Invece il servizio che mi è stato chiesto ha sempre riguardato gli ambiti della formazione e del governo.

Tornando nelle Filippine il prossimo anno, dopo questo mandato di Governo generale, avrò ancora la possibilità – se Dio vuole – di lavorare in libreria. E, con l’intercessione di sr Melania, spero di poter lì incontrare quelle giovani che il Signore ci manderà per fare del bene, con la libreria e con tutti i mezzi e i linguaggi della comunicazione sociale.

Inocencia Tormon, fsp

Guardare fuori dalla finestra

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail
Raccontare di me? Io racconto spesso, a me stessa, le mie fantasie, le mie utopie, i miei desideri, i miei compromessi, le mie insicurezze, i miei successi, i miei fallimenti... Ma raccontare di me ad altri non è la stessa cosa.
Teresita Conti, fsp(1928-2014)

Ma raccontare di me ad altri non è la stessa cosa. Ci stanno di mezzo la mia immagine, la mia privacy, le mie paure, le mie fragilità, i miei segreti, anche i miei talenti; come pure la consapevolezza che l’opera di Dio in me è vera. In fondo non mi piace, ma ci provo…

Nella mia famiglia sono stata bene, anche se, come tutti, qualche rimprovero posso farlo ai miei genitori. Sono stati figli della loro epoca e la loro prima preoccupazione era quella di insegnarmi a comportarmi bene, a non fare o far fare brutta figura, a studiare per un domani. Un po’ meno mi hanno aiutata a far crescere la mia identità. In ogni modo, sono loro infinitamente riconoscente, perché mi hanno voluta, mi hanno amata e mi hanno favorito una infanzia e una adolescenza serena.

Quando ho incominciato a sentire il desiderio di essere me stessa, e quindi a voler fare delle scelte personali, ecco l’evento, la circostanza che ha fatto dare una svolta alla mia vita. A essere sincera, è stato un puntiglio che ha favorito la mia conoscenza delle Figlie di San Paolo, ed è a questo punto che tutto cambia. Un po’ di lotta interiore e poi la decisione. Di botto. Non ho sentito una voce speciale, ma sono entrata a far parte delle Figlie di San Paolo per una scelta personale; sono così entrata in una autostrada nella quale mi sono avventurata, decisa e quasi cosciente di quello che facevo. Nelle autostrade la possibilità di ritorno non è ad ogni passo, così sono andata avanti senza timori o rimpianti, scoprendo invece novità di vita, percorsi entusiasmanti e panorami meravigliosi.

O meglio, sì, un rimpianto l’ho sentito: la rinuncia a una famiglia mia, a bimbi miei. Ogni volta che lo avvertivo, questo rimpianto era motivo di offerta; ne risultavo sempre felice, e lo sono ancora.

La prima parte del percorso mi ha portata ad Alba. Aria di convento, ma tanta gioia genuina, vera. A Roma sono approdata per il noviziato, con l’attesa di chissà quali regole severe, quali mortificazioni e quanto tempo in ginocchio. Mi ha sorpreso la normalità, la semplicità. Maestra Nazarena è stata la mia maestra di vita. Di lei ricordo non l’insegnamento teorico, ma la sua accoglienza semplice e sincera, il suo esempio di essenzialità e buonumore, con il quale “condiva” anche le cose serie. Saggia astuzia per far registrare meglio nella mente ciò che si doveva ricordare. In noviziato si usava aiutarci nella conoscenza di noi stesse indicando le une alle altre i difetti emergenti. Ne ricordo due: le piace guardare fuori dalla finestra, e: non mangia il pane se non è fresco. Non so perché non ricordo gli altri, e ce n’erano almeno una decina! Di questi due, che non ho drammatizzato, a distanza di anni penso che non fossero “difetti”, ma un qualcosa che nascondeva valori positivi. Il primo mi ha portato a desiderare di guardare sempre oltre il mio piccolo mondo, di aprirmi agli altri, di voler scoprire realtà diverse, valori di vita nuova, a desiderare di conoscere sempre meglio l’ALTRO, conoscere gli altri, conoscere me stessa. Ad appagare il mio desiderio, senza saperlo, certo, è stata Maestra Tecla, quando mi ha invitata ad attraversare l’oceano inviandomi in Colombia. Il secondo, mi accompagna ancora nel desiderio sempre vivo di “nuovo”, di dinamico, di fresco.

A Bogotà avvenne il mio primo approccio con un’altra cultura. Arrivavo carica del mio bagaglio di civiltà, di superiorità e di qualche conoscenza teologica. Desideravo aiutare quella gente povera, considerata meno civile e martoriata dalla guerriglia rurale già in azione nel lontano 1955. Avevo in valigia tutte le risposte pronte. Non pensavo che mi sarebbero state cambiate le domande. Con tutta la delicatezza possibile, come formatrice, ho cercato di comunicare, insegnare, proporre, esigere… Qualcosa attecchiva. Ma in maggioranza erano testate contro un muro. Imparata la lingua, ho capito qualcosa in più. Ho capito che prima di tutto era necessario cercare di conoscere la loro storia e le storie personali; era necessario cercare di capire la loro cultura, il loro modo di guardare la realtà, di considerare eventi e persone… Il mio bagaglio, le mie conoscenze, ai quali ero afferrata, non rispondevano adeguatamente. Oltre al fatto che nulla potevo fare senza l’ALTRO.

In questa ricerca, durata anni, non giorni o mesi, qualcosa in me si è andata sciogliendo e mi sono trovata conquistata e coinvolta io stessa. Non è stato facile cambiare, rinunciare alle mie sicurezze. Qualcosa resisteva dentro, in lotta con il desiderio di essere una di loro, come Gesù che si è fatto uno di noi.

Mi sono lasciata fare, e ho scoperto valori e ricchezze che potevo assumere perché non toglievano nulla a quello che ero, in cambio mi arricchivano di ciò che non avevo. Quando credevo di aver capito qualcosa, di aver assunto una mentalità meno legata a regole e leggi nate con me, conservando i valori essenziali; quando avevo imparato a star bene in questa nuova realtà, sono stata chiamata a guardare ancora fuori dalla finestra.

La Paz mi ha accolto con il suo panorama da fiaba, specialmente di notte, adagiata su un altopiano, sotto un cielo azzurro profondo, con il “Nevado dell’Illimani” da sfondo, e con la gente vestita con grandi gonne dai mille colori. Ero sempre in Latino America e credevo di essere ormai esperta. Mi sono dovuta ricredere. Ho trovato una comunità maggiormente immersa, apostolicamente, nel mondo indigeno, ma in sé ancora “italiana”. Qui mi raggiunse la brezza del Concilio Vaticano II, della Conferenza di Medellin. Tempi belli di rinnovamento, ruminato, macinato e condiviso con altri religiose e religiosi, nella ricerca di una espressione della fede e della missione sempre più vera e autentica. Arricchito il mio bagaglio con questa esperienza e desiderosa di farla diventare vita, ecco che si apre un’altra finestra: Buenos Aires. Sempre LA, ma quanto diversa…

Nei miei primi giorni, in questa altra LA, trovandomi in un incontro tra sorelle, invitata a dire come mi sentivo, senza pensare molto dissi che per la terza volta mi trovavo sradicata e smarrita, capivo che avrei dovuto prima guardare, osservare, capire e solo dopo avrei potuto sentirmi a mio agio, e in condizioni di dire, di collaborare, di fare qualcosa. Veloce e illuminante è stato il gesto della mia vicina. Prendendomi il braccio e tenendolo stretto mi disse: «Grazie! È questo che vogliamo. Non vogliamo che tu venga a portarci qualcosa. Vogliamo che prima tu ci conosca, per poi poter dialogare e lavorare insieme». Ancora una volta sono stata invitata a guardarmi dentro, a mettermi a confronto, a cambiare parametri, a far morire qualcosa per far posto alla “novità” che mi era offerta ancora.

Non finiscono qui le mie finestre. Bogotà mi riaccoglie, e torno a camminare sui passi già fatti. Ritrovo, oltre alle persone nuove, persone conosciute, persone amiche, ma diverse da come le ho lasciate. Io pure non sono la stessa, perché la storia mi ha trasformata; e loro non sono le stesse perché il tempo le ha aiutate a crescere. Ci raccontiamo le nostre storie e ci scopriamo più umane, più mature, più padrone della nostra vita, più solidali, più desiderose di camminare insieme.

Ancora una finestra: il rientro in Italia. Doloroso e comprensibile solo a chi l’ha vissuto. Non è un rifiuto per la mia terra, per la mia gente: è lo strappo di dentro che duole. Il cuore è debole. Non ho rimpianti. Ancora una volta ho trovato chi mi ha aiutato a crescere, chi mi ha formato per il rientro, non fisico o di luogo; si trattava del rientro in un ambiente, in una cultura che avevo lasciato molti anni prima, non più gli stessi di allora.

E ora sono qui. Forse si potrà dire che con tanti cambi e trasformazioni non sia più io… Assolutamente no. Sono sempre io, felice di questa vita vissuta così. E’ una utopia, ma se avessi un’altra vita, vorrei partire dalla esperienza di oggi, e continuare a crescere. Vorrei una vita più autentica, più vera, più libera segnata da motivazioni mature, attenta al cammino dell’umanità, sempre piena di stupore per l’appassionante forza creatrice di Dio e sempre nella ricerca della “novità di vita”. È sempre desiderio di pane fresco, di “novità”. È sempre voglia di guardare oltre. Ora, parafrasando A. Solzenicyn posso dire: «Mi volto indietro, e mi riempio di stupore guardando la strada percorsa dall’inizio fino ad ora, e rendo grazie al Signore, perché mi ha dato la gioia di scoprirmi sempre nuova, la gioia di crescere e di comunicare un riflesso della sua luce».

Ho sentito gioia raccontandomi. Per chi mi legge forse sono stata poco interessante. Il mio racconto può sembrare superficiale. Sì, lo è. Il racconto vero, quello del mio rapporto con Dio, quello dell’opera sua in me è il “segreto del Re”.

Oggi mi sento come un pulcino che dà le ultime beccate per uscire dal guscio. Non ho finito di nascere.

Teresita Conti, fsp

FILIPPINE
80° Anniversario della fondazione

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail

Il 13 ottobre 2018, si è celebrato l’80° Anniversario della fondazione delle Figlie di San Paolo nelle Filippine, con il tema Celebrando la fedeltà di Dio.

L’evento è stato preparato da un triduo di meditazioni e preghiere per celebrare la bontà e la fedeltà del Signore fin dall’inizio della fondazione. Sono state ricordate in particolare le prime tre sorelle che sono arrivate nelle Filippine: sr Edvige Soldano, sr Elena Ramondetti, sr Maria Cleofe Zanoni.

Don Jose Aripio, Superiore provinciale ssp, ha presieduto la Messa di ringraziamento nel giorno proprio dell’Anniversario, elogiando la Congregazione per l’impegno e la dedizione in tutti questi 80 anni. La Superiora provinciale fsp, sr Delia Abian, nel suo discorso di ringraziamento ha detto: «Mentre iniziamo questa celebrazione vogliamo rivivere nei nostri cuori lo stesso desiderio che ha animato le nostre prime sorelle. Come il beato Giacomo Alberione e la venerabile Tecla Merlo, dobbiamo essere persone capaci di ascoltare il cuore di Dio, il cuore della Chiesa e dell’umanità. Diventare nuovi apostoli che portano la Parola di Dio come il fuoco nei cuori dei popoli, specialmente in quelli che si trovano nelle periferie della nostra società».

Nelle diverse comunità delle Filippine, le sorelle hanno commemorato l’evento con i loro benefattori e collaboratori, organizzando varie attività di animazione e mostre di libri, con la distribuzione di vari prodotti e Bibbie editate dalle Paoline in lingua locale, soprattutto verso le famiglie più povere.

COREA
Festival del cinema cattolico

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail

Il quinto festival del cinema cattolico in Corea, si è tenuto dal 25 al 28 ottobre 2018 nella biblioteca CGV Myeongdong Cine (Seoul). I temi affrontati sono stati quelli del rispetto e dell’equità. I cortometraggi in concorso erano 690, tra questi ne sono stati selezionati 13. Ha ricevuto il primo premio Tears, diretto da Oh Seong, mentre Primavera in estate, diretto da Hwang Da-seul, ha ricevuto il premio di eccellenza.

Riflettendo sulla società contemporanea in cui si diffondono sempre più disuguaglianza, diversità e odio, la Catholic Filmmakers Association, fondata in Corea nel 2013, ha scelto i temi del rispetto e dell’equità visti attraverso alcuni canali particolari: età, razze, lingue, religioni politica. Il manifesto di quest’anno, illustrato con vari colori e disegni di mani, piedi e foglie, esprime l’uguaglianza come realtà universale.

Hanno fatto parte della giuria esaminatrice Nicolaus Jo Yong-jun, ssp e Teresa Son, fsp, attivamente coinvolti nell’evento.

Questo contenuto non è disponibile per via delle tue sui cookie

Virtuale e reale: un mutamento antropologico?

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail

Le conquiste tecnologiche della rete e della bioelettronica stanno producendo cambiamenti sociali ed economici di portata epocale. La tecnologia imprime un impulso all’evoluzione della cultura, con un mutamento che investe anche la concezione stessa della persona umana. La cultura tecnologica tende a ridurre l’uomo a corporeità meccanica o a immaterialità comunicativa, comprimendo la sua interiorità e modificando la sua percezione del mondo e di se stesso.

Il confronto tra “reale” e “virtuale” è al centro di questo mutamento antropologico, con effetti sulla vita dell’uomo e sui rapporti sociali.

Cosa è reale, cosa è virtuale

Cosa pensiamo, quando diciamo reale o virtuale? Alle cose materiali o ai pensieri? E consideriamo reale il momento presente, e virtuale il futuro?

I filosofi greci si interrogavano su essere e divenire, su potenza e atto, sulla conoscenza sensibile e quella concettuale. I latini, gente concreta, non conoscevano il termine “virtualis”. Pensavano però alla “virtus”, il valore, l’eccellenza, i comportamenti positivi, morali o fisici, da mettere in pratica concretamente. Virtus è contemporaneamente potenza e atto, virtualità e realtà effettiva.

Le domande filosofiche sembrano superate dall’attuale cultura diffusa, indotta dalla scienza e da una certa visione materialista. Oggi il pensiero comune intende il mondo reale come tutto ciò che è concreto, effettivo, sensibile, mentre si considera virtuale ciò che è possibile, potenziale, immaginario.

L’informatica e le tecnologie di rete hanno però cambiato il significato di “reale” e “virtuale”, perché hanno cambiato il modo di conoscere le cose e trasformato le relazioni tra le persone. Nel mondo della rete reale e virtuale tendono a coincidere, le relazioni sono “a distanza” ma allo stesso tempo “in prossimità”, con conseguenze che meritano di essere approfondite.

La persona umana tra reale e virtuale

Il rapporto tra reale e virtuale ha implicazioni antropologiche. Se ciò che è vero e ciò che è possibile coincidono, se ciò che è concreto è reale come ciò che è digitale e immateriale, cosa ne è della vita spirituale dell’uomo? Cosa ne è delle verità della fede, dei sentimenti religiosi? Sono forse confinate in uno spazio virtuale, di esperienza soggettiva che non può essere condivisa? Anche il linguaggio viene modificato dalla cultura tecnologica e occorre trovare forme di comunicazione comprensibili per trasmettere l’esperienza di fede. Si considerino come esempio due aspetti soltanto: intelligenza e relazionalità.

L’intelligenza, come capacità di comprendere, viene identificata con l’intelligenza artificiale del computer: una intelligenza razionale, operativa, predeterminata dagli algoritmi eseguiti, non certo la capacità di pensiero né la consapevolezza di sé. E la relazionalità dell’uomo viene trasferita attraverso la rete a dispositivi che imitano il comportamento umano, fino a rispondere alle domande con la voce. Un po’ alla volta l’uomo e le macchine appaiono sempre più simili.

Quale futuro

Quale sarà il futuro è oggetto di riflessione, sintetizzata dalla domanda di Nicolas Carr: «Internet ci rende stupidi?», a cui replica Derrick De Kerchove: «La rete ci renderà stupidi?».

Il primo ritiene che la rete induca un apprendimento superficiale, limiti la capacità di attenzione, non stimoli il senso critico e ci renda conformisti ed omologati. Il secondo riconosce gli effetti della rete sul nostro modo di pensare, di conoscere e di ragionare, ma sostiene che, nonostante gli aspetti problematici, le potenzialità positive della rete liberano risorse mentali che le persone possono usare in maniera più creativa, fino ad ipotizzare il prossimo avvento di un nuovo Rinascimento.

Dibattito aperto

Il dibattito è aperto e tocca esigenze e tentazioni radicate profondamente nello spirito umano, quelle cioè di riuscire a raggiungere, attraverso la tecnologia, l’onnipotenza, l’onniscienza, il successo, il potere, l’immortalità: gli strumenti informatici permettono di controllare tutto e tutti, offrono un mare di informazioni senza la fatica della ricerca e della memoria, la rete consente di raggiungere facilmente popolarità e consenso vincendo la solitudine, le “protesi” elettroniche e meccaniche sostituiscono parti del corpo umano restituendo all’uomo la sua completezza fisica.

Il facile entusiasmo per i successi della tecnologia portano a trascurare quello che rischiamo di perdere, delegando alle macchine e agli algoritmi competenze e responsabilità, qualità delle informazioni e verità, tutela della privacy personale. Ma anche il mondo della tecnologia è limitato e imperfetto, soffre la possibilità di errori e malfunzionamenti. E occorre ricordare sempre che la tecnologia risponde a logiche di tipo economico e ha limiti oggettivi insuperabili.

Per tutti questi aspetti pensare all’uomo del futuro, che sarà tecnologico, vuol dire affrontare problemi etici fondamentali, e interrogarsi sulla natura della persona umana.

Un compito che non può essere lasciato ai tecnici, ma che filosofi e teologi non possono svolgere da soli. Il futuro tecnologico “a misura d’uomo” potrà essere realizzato solo con un grande impegno di consapevolezza da parte di tutti.

Andrea TomasiDocente di Ingegneria informatica all'Università di Pisa

800 giornalisti assassinati negli ultimi 10 anni

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail

I delitti contro gli operatori dei media sono crimini contro i diritti umani, perché ledono libertà fondamentali e minano i principi dello stato di diritto. Pericoli che sono stati riconosciuti a livello internazionale con una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2013, con cui veniva istituita la Giornata internazionale per mettere fine all’impunità per i crimini commessi contro i giornalisti.

Da un rapporto presentato in occasione della Giornata internazionale 2018 risulta che l’anno più sanguinoso è stato il 2012, con 124 omicidi. Ad oggi, la realtà dei fatti ci dice che solo un caso su 10 di delitti commessi contro giornalisti si conclude con una condanna.

La Giornata di quest’anno ha posto l’attenzione su 7 paesi: Messico, Pakistan, Afghanistan, Iraq, Yemen, Somalia e Ucraina. Per far fronte a questo problema la Federazione internazionale dei Giornalisti IFJ porterà avanti la campagna intitolata #EndImpunity.