Il Volto della Comunione

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail

Nella vita ogni tanto fa bene fermarsi, soprattutto per noi religiosi. È vero, non mancano le occasioni: gli esercizi spirituali, i ritiri, gli approfondimenti… Ma è importante anche prendersi uno spazio per guardarsi dentro e attorno, guardando radicalmente e globalmente la strada percorsa.

Dopo venti anni tra le Figlie di San Paolo, lo Spirito mi ha fatto vivere un’esperienza “singolare”. Ma non ci sono arrivata da sola. Quando ho ricevuto la proposta di padre Marko Rupnik di partecipare all’Atelier di Teologia del Cardinal Špidlík, presso il Centro Aletti a Roma, l’ho accolta con lo stesso sorriso di Sara, la matriarca biblica, quando le fu preannunciata la nascita del figlio Isacco. Davanti a quell’invito pensai che era una cosa molto bella, ma oltre le mie reali possibilità.

Considerando gli impegni che avevo ‒ tra il consiglio di delegazione e la nostra piccola ma ricca realtà in Polonia ‒ mi sembrava irrealizzabile. E invece tutto si è realizzato, come un miracolo del Signore.

L’Atelier di Teologia è un luogo di singolare e concreta bellezza. L’esperienza è rivolta a piccoli gruppi di laici, religiosi e sacerdoti, e consiste nell’approfondimento del mistero di Cristo, riscoprendo il battesimo, in una logica di comunione e di vita nuova nell’unico Spirito. Il vivere e studiare insieme, scandito dalla preghiera e dalle celebrazioni liturgiche, favorisce un’assimilazione del pensiero di Cristo e della Chiesa, secondo una prospettiva sapienziale tipica dell’epoca patristica, dove non esisteva frattura tra sentire e vivere, tra riflessione teologica e sguardo di fede.

Partendo dalla vita ‒ e non dai concetti ‒, l’Atelier favorisce la riscoperta del linguaggio simbolico-sapienziale, piuttosto che quello astratto-argomentativo, rimettendo al centro la vita spirituale. Si è introdotti una seconda volta nelle proprie conoscenze teologiche e nella propria esperienza di fede, a partire da un punto prospettico più profondo e unitario, dove si respira la gioia della comunione nell’unico corpo di Cristo che è la Chiesa.

Il tempo all’Atelier è stato per me molto importante e, direi, fondamentale, sebbene breve. Nove mesi sono pochi per assimilare i contenuti proposti, ma sufficienti per vivere la profondità e la bellezza della comunione con Dio e le sorelle e i fratelli con i quali ho vissuto un’esperienza viva di Chiesa e quindi (per quanto possibile e nonostante i nostri limiti) del modo di vivere che viene dalla Trinità.

Da questa comunione, che è amore, è nata una conoscenza autentica. All’Atelier si sperimenta la Chiesa nella ricchezza della diversità dei carismi, dei doni, dello stato di vita, e si scopre un’unità che da soli non si può ottenere, la vera dimensione della comunione, che non è uguaglianza, parità… ma accoglienza del diverso, dell’altro.

La relazione è il problema grande della società odierna. Il disagio che sperimentiamo davanti alla diversità ci fa standardizzare ogni cosa, secondo leggi e regole, tanto da cancellare i volti degli altri. Senza il volto, non possiamo essere in relazione. La vita trinitaria è dono gratuito ma anche sfida, è la sorgente e il punto di arrivo dell’evangelizzazione. Penso che questa comunione nell’unico Spirito di Dio sia il solo futuro della Chiesa.

«Così dice il Signore: “Fermatevi nelle strade e guardate, informatevi dei sentieri del passato, dove sta la strada buona percorretela, così troverete pace per la vostra vita”» (Ger 6,16).

Questa la grazia che ho ricevuto: potermi fermare, informarmi dei sentieri del passato, prendere la strada giusta, trovare pace. E tutto questo al plurale, con gli altri, in comunione.

Ewa Głowińska, fsp


«Sei troppo giovane»

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail

Mentre mi trovavo con mia zia da don Giuseppe, il fratello della mamma, provavo grande interesse per la biblioteca che lo zio aveva nel suo studio. Quando lui era assente, approfittavo per guardare e leggere i titoli dei libri e qualche pagina. Un giorno trovai un album delle Figlie di San Paolo. Me lo portai via e per tante sere, prima di dormire, lo lessi e ammirai le fotografie. Questo è stato l’inizio del “desiderio” di farmi suora.

Nel 1950, Anno Santo, sapevo che alcune ragazze della mia parrocchia, “aspiranti” dell’Azione Cattolica, sarebbero andate a Vicenza dalle suore Dorotee per un ritiro spirituale di tre giorni, e vi andai anch’io. In quei giorni pregai il Signore e la santa Bertilla Boscardin di concedermi la grazia di essere suora e di andare in missione.

Da quando mia sorella Caterina era entrata ad Alba dalle Figlie di San Paolo, le Paoline di Verona erano spesso a casa nostra. Venne pure Maestra Assunta Bassi a fare un incontro con le giovani in parrocchia e ci parlò anche dei ritiri che facevano a Verona. Vi andai allora con mia cugina (futura sr Eusebia) e lì trovammo tante giovani; tra queste, Sergia Ballini ci teneva allegre con la sua armonica a bocca.

Al termine del pranzo, tutte aiutammo a riordinare la casa. Io andai in cucina con una pila di piatti da lavare. Entrando, mi fermai ad osservare le due suore che lavavano le stoviglie: erano felici, ridevano. Beh, quella scena non la dimenticai più: mi rimase negli occhi e nel cuore. Mi dicevo: “Vorrei anch’io essere felice così!”. Quella giornata fu bella, un’esperienza semplice e di tanta gioia.

La mia decisione era ormai presa: sarei andata ad Alba… ma non subito. Un giorno, però, piombò in casa nostra mia cugina Eusebia, tutta felice, per comunicarci che aveva deciso di partire per Alba. E con enfasi mi disse: «Vieni anche tu!». Quelle parole mi spaventarono e mi misi a piangere. La mamma rimase senza parola; mio papà invece si infuriò e mi disse: «Sei troppo giovane [avevo 16 anni]. A Caterina credo, ma a te no!».

Alla fine, però, Eusebia e io entrammo ad Alba, il 15 marzo 1952. Io ero accompagnata dal mio papà.

Gli anni di Alba, quelli di Roma… la formazione ricevuta: quanta grazia di Dio e quanta benevolenza! Poi i primi passi di vita apostolica in propaganda, in libreria… Poi il servizio di vocazionista.

Avevo 31 anni e mi trovavo a Trento quando ricevetti una lettera da Maestra Ignazia in cui mi chiedeva di prepararmi per il Cile. Dopo 20 anni in Cile, 6 in Venezuela, 19 in Perù-Bolivia, posso dire che, nella mia piccolezza e povertà, il Signore ha avuto tanta pazienza con me e tanta misericordia. Devo molto a tutte le superiore che ho avuto, dalla Prima Maestra in poi… Quanta bontà, compassione, incoraggiamento. E ho pure goduto della stima e dell’affetto di tante sorelle… anche troppo!

Federica Marcazzan, fsp
Roma, 29 novembre 2016
(quindicesimo anniversario della morte di mia sorella sr Caterina)


Come viene incontro il Signore?

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail

Il Signore ci porta talvolta fuori da ciò a cui siamo abituati, per entrare nel nostro mondo, nella nostra esistenza. A me è successo proprio così, e quando non ero nemmeno cristiana. Un anno in Francia cambiò tutta la mia vita.

Laureata in letteratura francese in Corea, ho sempre desiderato lavorare nel campo delle traduzioni. Per questo, un giorno lasciai il mio lavoro e andai in Francia per perfezionare la lingua e specializzarmi nelle traduzioni. Ma non sapevo cosa mi aspettava lì…

Dopo circa una settimana dal mio arrivo a Angers, sede dell’Université catholique de l’Ouest, il Signore cominciò a cambiare la rotta della mia esistenza. Il proprietario della stanza in cui alloggiavo mi chiese di liberare la camera entro fine mese per l’improvviso ritorno della figlia. Il semestre all’università era già iniziato ed era molto difficile trovare una camera libera nei paraggi. Ero delusa e disperata. Finalmente, una giovane coppia coreana, che studiava nella mia stessa scuola, mi diede una notizia incredibile: una nostra connazionale stava per rientrare in Corea per motivi di famiglia e quindi si liberava la sua stanza.

Miracolosamente, scampata al pericolo di dormire all’aperto nel cuore dell’inverno, entrai nelle mani di Dio senza saperlo. L’affittuario era un prete in pensione, ancora parroco di una piccola chiesa, e la mia camera si trovava nel giardino della parrocchia, accanto alla canonica. Ogni mattina mi svegliava il suono delle campane, come se un angelo mi sussurrasse all’orecchio. E il venerdì frequentavo un gruppo che meditava sul Vangelo. La prima messa della mia vita fu quella del mercoledì delle ceneri, celebrata a scuola in occasione dell’apertura del nuovo semestre. Tutto il giorno sentii risuonare nella mente le parole dette dal sacerdote mentre imponeva le ceneri: «Polvere sei e polvere ritornerai». Piano piano iniziai a frequentare la messa domenicale.

Il mio rapporto con don Jean Gautron somigliava a quello tra un nonno e la nipote. Don Jean bussava alla mia porta quasi ogni giorno, e non sempre questo mi faceva piacere. Ma, col passar del tempo, mi resi conto della gioia, dell’energia, della passione che lo animavano. Mi colpì, in modo particolare, come viveva la povertà. Mi interrogavo sulla sua serenità, decisa a scoprire da dove nascesse. Ma non gli chiesi mai niente…

In quel tempo, durante i miei viaggi attraverso vari paesi europei, scoprii tante chiese, belle e antiche. Tre giorni prima del mio ritorno in Corea, in una di queste chiese il Signore bussò al mio cuore. A Sainte Marie-Madeleine, a Parigi, davanti al complesso scultoreo raffigurante la Gloria di Santa Maria Maddalena, mi sentii profondamente consolata e protetta. Ne rimasi impressionata e capii che era giunta l’ora di andare da Lui.

Il giorno dopo, durante la messa nella Cattedrale di Notre Dame, mi decisi a iscrivermi al catechismo. Un anno dopo fui battezzata col nome di Marie-Madeleine, diventando così la prima cristiana della mia famiglia.

Una volta entrato nella mia vita, lo Spirito Santo non smise di guidarla. Per tre anni, dal giorno del mio battesimo e finché entrai tra le Figlie di San Paolo, tanti “angeli” mandati da Dio mi accompagnarono. Durante la formazione iniziale, ogni volta che rileggevo la mia storia, scoprivo quanto queste presenze fossero state importanti per individuare il progetto che il Maestro aveva su di me.

Ringrazio di cuore tutti coloro che sono stati cooperatori del Signore, primo fra tutti don Jean Gautron, che dall’inizio del nostro incontro mi ha sostenuta e accompagnata nel cammino vocazionale con la preghiera e con le sue lettere.

Marie-Madeleine Lee, fsp


Il corpo di San Timoteo sarà esposto nella Basilica vaticana

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail

In concomitanza con la prima “Domenica della Parola di Dio”, in programma il 26 gennaio 2020, il corpo di San Timoteo sarà esposto nella Basilica di San Pietro a Roma.

È la prima volta che l’urna contenente il corpo del discepolo di San Paolo, custodita nella cattedrale di Termoli in Molise/Italia, verrà esposta nella Basilica vaticana.

Un documento lapideo, rinvenuto l’11 maggio 1945 nella cripta della cattedrale di Termoli, attesta che il corpo ritrovato era proprio quello di San Timoteo, “figlio prediletto” dell’apostolo Paolo.

La “Domenica della Parola di Dio”, istituita da Papa Francesco, coincide nel 2020 con la memoria dei Santi Timoteo e Tito, entrambi discepoli dell’Apostolo delle Genti.

«Verrà il tuo tempo»

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail

Quello che aveva affascinato occhi e cuore di adolescente, fino a farmi decidere di entrare tra le Figlie di San Paolo a soli 14 anni, è stato un filmato che mostrava suore e ragazze lavorare alle macchine da stampa. E, proprio con queste macchine, ho iniziato l’apostolato paolino, nella grande comunità di Alba.

Trascorsi con entusiasmo gli anni di formazione, ho scoperto che non c’erano solo le macchine da stampa, ma anche altre espressioni e strumenti di apostolato. Mi attraeva la propaganda e aspettavo con ansia che arrivasse il mio tempo per spiccare il volo e portare io stessa la Buona Notizia nelle parrocchie, nelle case, nelle scuole, in ogni ambiente di vita.

Fatta la vestizione, fui inviata a Venezia e lì ebbi la possibilità di svolgere questo meraviglioso aspetto del nostro apostolato. Con mio grande dispiacere, però, dopo tre mesi fui richiamata ad Alba perché la sorella incaricata della stampa si era ammalata. Mi dissi: “Pazienza, sarà per dopo il noviziato!”. Delusione, crisi…

Il giorno dopo la professione, mentre salutavamo Maestra Nazarena, la nostra formatrice che partiva per la Sardegna, sr Fatima Malloci disse: «Maestra Nazarena, non dice niente a Valeriana?». Lei mi fissò e rispose: «Tu domani sera parti per Alba».

La guardai sconvolta, poi mi nascosi dietro la porta delle scale e piansi tutte le mie lacrime. Questa sofferenza per la rinuncia alla propaganda la portai dentro di me per tre anni, fino a quando Maestra Cecilia Calabresi mi disse con decisione: «Smettila, questo è il tuo apostolato!».

Anche un altro evento mi fece finalmente comprendere che il Signore mi voleva nell’apostolato tecnico. Maestra Amalia Peyrolo era venuta in visita ad Alba e, incontrando la comunità, comunicò che alcune sorelle sarebbero andate in missione.

Io sentii risvegliarsi in me il grande desiderio di uscire, uscire, uscire… Mi alzai e le dissi: «Ma è possibile che tante vanno in missione e io devo restare sempre qui?». Lei mi guardò con volto serio e ribadì: «Tu resterai qui fino a settant’anni». Delusa, dissi a me stessa: “Basta! Non chiedere più. Stai zitta per sempre”.

Dopo qualche tempo, venne ad Alba la Prima Maestra Tecla. Quando stava prendendo la valigia per ripartire, mi precipitai alla sua porta e le domandai: «Prima Maestra, quando andrò in missione?». Maestra Tecla mi rivolse un sorriso materno mentre mi diceva: «Ora fa’ bene qui il tuo dovere, poi verrà il tuo tempo».

Ancora una volta restai delusa. Ma, dopo quattro anni dalla sua morte, si realizzò finalmente il mio sogno missionario e partii per il Congo, con il cuore colmo di entusiasmo e di desiderio di portare il Vangelo a tutti.

Essendo stata tanti anni ad Alba, ho avuto la grazia di vedere più volte la Prima Maestra Tecla e di parlare con lei. Il suo sorriso, la sua semplicità, tutto il suo essere emanavano amore e fiducia.

Grazie, Prima Maestra, per il bene che ci hai voluto e ci vuoi. Ti sento vicina sempre.

Valeriana Poletto, fsp

Inseguita dal Segugio del Cielo

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail

Sr Carmencita GarciaFilippine

Il racconto della mia chiamata

La vocazione è una risposta al misterioso dono della chiamata di Dio: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16).

Sono sr Carmencita Garcia, missionaria filippina in Italia. In questo 24° anno della mia professione religiosa, è un privilegio per me guardare il mio cammino di fede e la mia relazione d’amore con il Maestro Divino.

Sono la più grande di cinque figli e sono cresciuta in una famiglia cattolica. I miei genitori, soprattutto mia madre, ha aperto la strada alla mia vocazione. Fin da piccola, in occasione del mio compleanno, era solita portarmi al monastero carmelitano per accendere una candela di ringraziamento per l’anno trascorso (sono nata in occasione della festa della Madonna del Monte Carmelo). Questa pratica annuale accese in me curiosità e interesse per quelle sorelle che vedevo dietro le tende e che cantavano con voci angeliche.

Crescendo, però, ho abbandonato il pensiero del monastero e mi sono concentrata negli studi, frequentando all’università la facoltà di ingegneria chimica. Essendo molto determinata ad avere successo nella mia professione, ho iniziato a fare sogni e progetti per il futuro dimenticando quelle monache nascoste dietro le tende. Ancor prima di terminare gli studi e aver conseguito la laurea, ho iniziato a cercare un impiego nelle grandi imprese del Paese.

Dopo aver superato l’esame di Stato in ingegneria chimica, mentre lavoravo come ingegnere apprendista, mi sentivo però inquieta. Attirata come una calamita dalla Messa quotidiana e dall’Adorazione eucaristica, cominciai a impegnarmi in organizzazioni cattoliche (il gruppo carismatico giovanile e la Blue Army di Nostra Signora di Fatima).

Ripensando a quando mia madre mi portava dalle carmelitane, mi recai al monastero per parlare con qualche monaca. Dio me ne fece incontrare una molto paziente, disponibile, che mi dedicò del tempo per rispondere alle mie domande.

Questo fu l’inizio del mio rinnovato interesse per la vita religiosa.

Poco dopo, tornata al mio paese natale, trovai un lavoro in città e la compagnia di nuovi amici, ma dentro di me c’era sempre un senso di vuoto e di inquietudine. Tenevo tutto dentro di me. La determinazione di fare carriera nella mia professione era molto forte ed ero quasi vicina alla meta.

Un giorno, mentre camminavo, vidi una freccia che indicava una porta aperta. Per curiosità entrai e mi trovai in una sala dove c’erano delle ragazze e due suore che mi accolsero con un grande e caloroso sorriso di benvenuto. Era un ritiro di “discernimento” per giovani organizzato dalle Figlie di San Paolo. In mezzo a loro mi sono sentita subito a casa. Mi ha colpito la gentilezza e l’ospitalità delle sorelle.

Quella visita imprevista divenne per me un impegno mensile. Tutto si svolse in maniera molto rapida e così, in breve, scrissi una lettera per chiedere di far parte del gruppo delle aspiranti di quell’anno (1987). Raccolsi quanto era necessario da portare con me, informai i miei genitori della decisione presa e lasciai il lavoro…

Tutto era pronto, ma un paio di giorni prima della partenza ebbi un ripensamento: non volevo più andare. Scrissi allora una lettera alla Superiora provinciale, dicendole che potevo servire il Signore anche senza entrare in una congregazione religiosa. E pensai di unirmi a un gruppo missionario laico che lavora per le tribù indigene, a servizio dei poveri.

Tentai di evitare in tutti i modi le Figlie di San Paolo: smisi di frequentare la loro comunità e le giornate di ritiro vocazionale. Ogni volta che ricevevo l’invito, mandavo agli incontri le mie sorelle più giovani e anche mio fratello.

Ma il Venerdì santo del 1988, mentre ero in fila per confessarmi, sentii un colpetto alla spalla. Capii subito che si trattava di una Figlia di San Paolo perché avevo intravisto la sfumatura blu del suo abito. Era una delle sorelle sorridenti che avevo incontrato la prima volta. Non mi domandò nulla, solo mi invitò, calorosamente, a visitare di nuovo la comunità. Non ne avevo voglia, ma non potevo dirglielo apertamente.

Una settimana dopo quell’incontro inaspettato, partecipai alla festa di benvenuto per il nuovo Vescovo, ex parroco della città natale di mia madre. Mi fecero sedere proprio dietro le Figlie di San Paolo… Capii che non potevo più scappare. Ero sempre molto interessata alla loro vita, ma questa era anche la cosa che mi faceva più paura. L’idea di lasciare tutto mi scombussolava. Sentivo che Dio mi chiamava, ma come potevo lasciare la mia famiglia, rinunciare alla carriera, ai sogni per il futuro?

È iniziato così il mio vero discernimento. Ho pregato a lungo, davanti all’Eucaristia, trovando finalmente la pace e il coraggio per una decisione definitiva. Alcuni mesi dopo sono partita per Manila, e non mi sono mai più voltata indietro.

Nonostante gli alti e bassi del lungo cammino, so che Dio mi ha chiamata a una vita bellissima, la migliore per me. Come nella poesia Il Segugio del cielo, di Francis Thompson, il Signore continua a inseguirmi con la sua paziente comprensione e il suo amore incondizionato e fedele.

Carmencita Garcia, fsp

Servire nel suo “esercito”

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail

Il mio nome è Ghazia Akbar, sono una Figlia di San Paolo e vengo dal Pakistan. I miei genitori, il cui amore ho ricevuto fin da bambina, sono devoti e fedeli cattolici. Siamo sette figli: quattro fratelli e tre sorelle. La mia famiglia vive all’interno dell’edificio della parrocchia.

La mia vocazione risale al 1999, quando alcune Paoline vennero in parrocchia per realizzare una missione visitando le famiglie. Mio padre, come era sua abitudine verso tutti i religiosi di passaggio, invitò le suore a unirsi alla nostra famiglia per condividere insieme un pasto. Io avevo appena terminato gli studi liceali ed ero a casa in ansiosa attesa di essere chiamata per un colloquio di ammissione nell’Esercito. Infatti il mio grande desiderio era quello di poter far carriera nell’Esercito Nazionale.

Quelle sorelle mi invitarono ad andare in comunità, ma io non avevo alcun desiderio di diventare suora. Volevo diventare un soldato, non una suora. Per questo motivo, non risposi al loro invito. Dopo circa un mese da quell’incontro, ricevetti una telefonata dalla direzione dell’Esercito che mi sollecitava a presentarmi per un colloquio. Andai e, terminato l’incontro, mi furono consegnati alcuni sussidi (libri e cd) su cui prepararmi per l’esame. Tornai a casa estremamente felice perché il mio sogno si stava avverando. Non sapevo che questa emozione sarebbe durata poco. Infatti, arrivando a casa, ricevetti un’altra telefonata: una suora paolina, di nome Shamim, mi invitava a partecipare a un programma denominato Come and see (Vieni e vedi) presso la loro casa. Quella chiamata non mi risultò gradita e non volevo andarci, ma mio padre mi incoraggiò a partecipare.

L’esperienza si rivelò fantastica. Mi permise di conoscere la vita del Fondatore, il Beato Alberione, della cofondatrice, Tecla Merlo, e la missione della Figlie di San Paolo nel mondo. Ebbi anche la possibilità di sperimentare la vita fraterna, constatare l’amore e la comprensione che esistevano tra le sorelle, godere della loro gioia e spontaneità. Dopo questa incredibile esperienza, avevo bisogno di riflettere e perciò, durante il tempo di discernimento, continuai gli studi per due anni, mantenendomi sempre in contatto con le sorelle. Terminati gli studi universitari, mi decisi a entrare tra le Figlie di San Paolo, il 20 agosto 2002.

La Congregazione è diventata così la mia casa; le mie superiore, ben decise e delicate allo stesso tempo, sono diventate come i miei genitori, e le suore mie sorelle. Da allora ho sperimentato un’abbondanza di gioia e felicità, così come l’ho vissuta nella mia famiglia di origine.

Certo, ho avuto anche la mia parte di fatiche e, ancora oggi, vivo momenti di prova e difficoltà. Ma il Signore della vigna è sempre stato gentile e delicato con me e non ha permesso che io vagabondassi senza meta. Sotto la guida dello Spirito Santo, le cui vie sono al di là di ogni umana comprensione, sono convinta di aver fatto la scelta giusta, anche se il mio primo desiderio era quello di servire la Patria nell’Esercito.

Il Signore mi ha chiamata a vivere e annunciare Gesù Cristo Via, Verità e Vita nel mondo della comunicazione, un dono di cui sarò sempre grata a Lui e alla Figlie di San Paolo. Ora, mentre guardo indietro alla mia vita religiosa, mi sento grandemente felice per il privilegio che Dio mi ha concesso di poterlo servire nel suo “esercito”.

Ghazia Akbar, fsp

È bello stare qui: la gioia della missione

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail
Sr Giulietta LodaTaiwan

«Vuoi partire per Taiwan? Le sorelle hanno bisogno di aiuto e io ho pensato a te».

È la voce della Superiora generale. Missione in Taiwan? In Oriente? Il sogno coltivato fin dai miei primi anni si realizza. Il passaporto, i vestiti bianchi, il saluto a genitori e parenti, tutto trascorse velocemente e finalmente il 30 novembre 1976 – strano, il giorno del mio compleanno! – partii per l’Oriente.

Era la prima volta che lasciavo l’Italia ed era anche il mio primo volo. Seduta in aereo, mentre guardavo la gente salire, sentivo dentro di me affiorare emozioni, paure, ricordi… Molti interrogativi si incrociavano e si accumulavano nel mio cuore a ritmo incalzante, come il suono dei motori dell’aereo portati al massimo prima del decollo.

Avvertivo che anche per me il momento del distacco dalla mia terra era arrivato, la separazione da persone amate, conosciute, che avevano segnato la mia storia. Sentii come un brivido che attraversava tutta la mia persona e mi costringeva ad afferrare il sedile, per sentirmi ancorata a questa terra, e un dubbio si affacciò alla mia mente: sarò capace di tale distacco? Sentii il calore delle lacrime che spontaneamente scendevano sulle mie guance. E ebbi maggior consapevolezza di quanto era prezioso quello che lasciavo, e come appariva incerto quello che avrei trovato.

L’incontro con le sorelle della comunità, il suono di una lingua totalmente sconosciuta, il cibo, modi e usanze nuove, tutto divenne motivo di meraviglia, sorpresa, curiosità, gioia e desiderio di assorbire e fare mio questo mondo, per realizzare il sogno coltivato e innaffiato con tanti piccoli fioretti e preghiere, mortificazioni e sacrifici.

Ma ogni sogno, anche il più bello, ha sempre il momento del risveglio… E questo per me non fu facile. Mi trovai KO; ogni aspetto della realtà pian piano perdeva la magia dell’attrattiva e la monotonia del ripetersi delle cose corrodeva la gioia e, come tanti pugni sullo stomaco, lasciava dei lividi nel mio cuore. Interrogativi a cascate intorpidivano la calma, e i dubbi nel mio cuore si agitavano sempre più minacciosi. Ma allora avevo sbagliato tutto? Perché ora il Signore non sosteneva e spianava la via che andavo percorrendo in suo nome e per il suo nome?

Presi allora coscienza del fatto che non ero stata vigile abbastanza. Mi sembrava di aver fatto tanto per Lui – in effetti avevo lasciato tutto, no? –, ma non avevo lasciato me stessa…

Guarita e liberata dal Maestro della Vita, riaccolsi la grazia della missione e sentii che essa non è semplicemente un possesso, un’abilità coltivata come un’arte o degli inte­ressi, ma un dono ricevuto gratuitamente dal Signore. Non una conquista personale, non un luogo, ma una Persona viva che attraverso te e con te continua a fare discepole tutte le genti, e tu diventi suo testimone.

Un giorno una ragazza mi chiese se non sentivo nostalgia dei miei genitori e del mio paese nativo; le risposi di sì, che era forte, così come era forte l’amore che provavo per tutti i miei cari. Con occhi interrogativi mi domandò allora perché rimanevo in un paese così diverso, così lontano dalle persone che amavo. L’unica risposta che potei dare fu quella che Lui mi aveva fatto scoprire: «Rimango qui solo perché Dio mi ha scelta e mi ha mandata, e in Lui io ho trovato tutto ciò che ho lasciato e molto di più». La giovane, stupita, replicò: «Il tuo Dio deve essere molto importante e grande per poter superare gli affetti naturali così profondi».

Oggi, pur nella mia debolezza, sento vere le parole di Papa Francesco: «Non perdete mai lo slancio di camminare per le strade del mondo, la consapevolezza che camminare, andare anche con passo incerto o zoppicando, è sempre meglio che stare fermi, chiusi nelle proprie domande o nelle proprie sicurezze. La passione missionaria, la gioia dell’incontro con Cristo che vi spinge a condividere con gli altri la bellezza della fede, allontana il rischio di restare bloccati nell’in­dividualismo».

Ci aiuti il Maestro a seguirlo sempre con fedeltà, con intima gioia, e sostenga «la no­stra veglia nella notte, fino alle luci dell’alba, nell’attesa del Giorno nuovo».

Giulietta Loda, fsp

Per raccontarmi ci vorrebbe un libro

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail
Carla DugoItalia

Quando, nel lontano 1987, sr Maria Cevolani, allora Superiora generale, mi chiese di andare a Kisangani nello Zaire (ora Rep. Democratica del Congo) per un anno solare, la mia sorpresa fu grande.

Lavoravo a NovaradioRoma, un apostolato sempre aperto al mondo. Mi sono trovata in un grande villaggio, circondato dalla foresta vergine equatoriale, tanta povertà, tantissimo caldo, in una zona ad alto livello malarico. Gente in difficoltà per imbastire un pasto al giorno oppure uno ogni due giorni. L’istruzione riservata quasi solo ai maschi.

La gente soffriva, moriva per malattia in genere non identificata, moriva di malaria per mancanza di cure. Gente semplice, religiosa e sempre sorridente. Un popolo che ha la danza nel sangue; la gioia e l’incanto di vedere bambini di due-tre anni che danzavano durante le lunghissime celebrazioni domenicali.

Mi è stato richiesto uno spirito di adattamento non comune. I primi tempi sono stati durissimi. Amo questa città che in tre tappe mi ha visto per vent’anni. Dopo anni di permanenza, porto nel cuore ancora oggi la gente, i loro bisogni reali. I miei occhi hanno visto troppa sofferenza e tante ingiustizie verso i poveri.

Oggi Kisangani è diventata una città con diversi milioni di abitanti, anche se resta la terza città del Paese. In questi posti il nostro apostolato era ed è prezioso, e nella semplicità della vita noi ci sentivamo apostole essenziali perché il nostro Centro apostolico al nord del Paese copriva e copre una zona di migliaia e migliaia di kilometri (il Congo è sette volte l’Italia); e lo sentivamo ancora di più quando insegnanti, catechisti, venditori facevano tre, quattro giorni di bicicletta, oppure due giorni a piedi, o con mezzi di fortuna, per venire da noi.

Anche i missionari, sacerdoti locali, dalla foresta e villaggi sperduti arrivavano a rifornirsi di libri e altro. Era una tappa obbligatoria. Che gioia incontrarli! Il libro, la musica, i film, tutto diventava prezioso, ed è per tutto questo che siamo presenti, nonostante i continui pericoli di guerre e la scarsità di personale. Sulla preziosità e l’importanza del nostro apostolato, vi racconto un fatto che ha occupato un posto particolare nel mio cuore. Erano i primi tempi di missione e avevo ordinato un libro, arrivato dopo qualche mese. A Kisangani i giorni di attesa per ricevere i libri non si contano, anche se devono arrivare dall’interno del Paese. La persona che aveva chiesto il libro era povera; quando venne in libreria, sentendo che il suo libro era arrivato, con un gioioso sospiro mi disse: «Suora, sono contento che il mio libro sia arrivato, lo aspettavo da lungo tempo, ma ora devo fare una scelta: o comprare un paio di pantaloni o il libro e, sebbene abbia solo i pantaloni che porto, posso aspettare a comprarmeli, il libro no perché oggi c’è e domani no. Compro il libro». E la sua gioia fu grande!

Perché faccio memoria di questo episodio che può sembrare insignificante? Perché mi ha fatto capire profondamente l’importanza di essere inviata come apostola paolina in questi posti di frontiera, perché se non ci siamo noi a nutrire l’intelligenza di questi popoli, non c’è nessuno. Al mio arrivo la Chiesa locale era formata quasi esclusivamente da missionari.

La maggior parte reduci dagli avvenimenti politici del 1964, tempo in cui la Chiesa missionaria ha dato il suo contributo con tanti martiri, tra cui la Beata Anuarite, e migliaia di civili. Ritornando a Kisangani nel 2006, con gioia ho visto una Chiesa locale fiorente, con qualche problema ma con molta speranza nel cuore. Quando Maestra Assunta era ancora fra noi – si trovava allora nella comunità di via 4 Novembre ad Albano – durante le mie vacanza andai a trovarla; salutandomi mi chiese: «Allora, Carla, in questi anni ti è venuto il mal d’Africa?». Rimasi un attimo in silenzio e risposi: «No, Maestra Assunta, non ancora! In Congo non c’era posto per la poesia, tranne che per la bellezza della natura. Ho vissuto giorni terribili di guerre, saccheggi, paure, angosce, sognando piuttosto la pace». Lei mi guardò e sorrise, dondolò la testa: «Ti chiesero di andare per un anno ma vedo che sei ancora lì». Sorridemmo insieme senza commentare.

In sintonia con il Beato Alberione e Maestra Tecla, sentii che ai poveri, alla gente semplice, ai politici, agli intellettuali, come paolina ero inviata per nutrire l’intelligenza, per dare il pane della cultura e della verità e agli analfabeti insegnare a leggere, affinché ciascuno pensi con la propria testa.

Carla Dugo, fsp