Sviluppare virtù nella società digitale

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La virtù è un dispositivo personale che Foucault avrebbe inserito in quelle che lui chiamava “tecnologie del sé”. Ma anche il concetto di “dispositivo” va inteso nel significato che gli attribuiva il grande filosofo francese. Un dispositivo non è un marchingegno, uno strumento, una macchina elettronica. Nel senso in cui qui lo usiamo, un dispositivo è un insieme di tecniche, una strategia, un sistema di scelte. Nel caso della virtù, l’obiettivo della mobilitazione di queste tecniche, di questa strategia, è la gestione di se stessi.

Perché la virtù, in quanto tecnologia del sé, si può rivelare utile quando si ragiona dei media digitali, della loro diffusione sociale, dei comportamenti che essi richiedono? La risposta è articolata.

In primo luogo i media digitali richiedono l’esercizio della virtù, ovvero esigono da noi uno sforzo di riflessione e un lavoro su noi stessi. Non si nasce capaci di interagire con essi, il loro uso non è naturale. Straordinari per le opportunità che ci garantiscono – le potremmo sintetizzare parlando della loro capacità di aumentare la nostra esperienza del mondo e degli altri – i media digitali espongono anche a rischi. Ottimizzare le opportunità e limitare i rischi è lo spazio in cui la virtù si esercita.

In secondo luogo, quello di virtù è un dispositivo praticabile, umano, laico (nel senso di condivisibile al di là del singolo credo o confessione). Certo, poi, nella cultura cristiana vi sono virtù come la fede che si iscrivono in un altro orizzonte, ma almeno le virtù cardinali – quelle eredi dell’etica aristotelica – sono di certo molto trasversali: giustizia, temperanza, prudenza, fortezza sono le stesse, possono essere le stesse, per chiunque. Cosa voglio dire? Voglio dire che sul fatto di distinguere tra spazio pubblico e spazio privato e di imparare a non condividere nello spazio pubblico quel che è meglio rimanga in quello privato, un laico e un credente possono di sicuro concordare. Non solo. La virtù non è un punto di arrivo, ma un percorso. Non si è mai del tutto giusti, ma si impara attraverso ogni atto di giudizio a diventare giusti. La virtù non è uno stato, è un movimento, è qualcosa da guadagnare sempre di nuovo. Questo impegna ciascuno a un lavoro costante su se stesso, che non si può mai dire esaurito, compiuto. Non è da bambini che si impara a essere virtuosi, ma qualcosa che ci impegna sempre di nuovo anche da adulti.

Un’ultima considerazione merita di essere sviluppata. Diventare virtuosi, in tema di digitale, significa lavorare su se stessi. Oggi si direbbe che è un problema di autoefficacia. Questo vuol dire che il problema dei media digitali non si risolve con la regolamentazione, o con i divieti, o con i dispositivi di filtro o di protezione, ma con l’educazione. E l’educazione consiste nel creare le condizioni perché il soggetto possa fare empowerment, ovvero sviluppi la capacità di controllarsi da sé, di gestirsi da sé, di difendersi da sé. In Grecia questa era stata la funzione del Maestro, nella cultura cristiana del direttore spirituale, al tempo dei media digitali è questo lo spazio dell’educatore, genitore o insegnante che sia. In una società pervasa di media è difficile trovare comportamenti di cittadinanza che non abbiano a che fare con essi. E quindi occorre creare le condizioni perché questi comportamenti siano corretti. È questo lo spazio della Media Education intesa come intervento di sviluppo della consapevolezza critica e della responsabilità delle persone.

Si tratta di un lavoro di stimolo e supporto al comportamento virtuoso. Con il risultato che l’educazione incontra la cittadinanza e ritrova, al cuore di essa, l’etica.

Pier Cesare RivoltellaProfessore universitario
presso l’Università Cattolica di Milano

 


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